Il primo luglio del 2006 si giocava una partita speciale. Ci sono partite e partite. Alcune anonime, che finiscono nel dimenticatoio. Altre invece, sono destinate a scrivere capitoli indelebili nella storia dello sport.
Il primo luglio di tredici anni fa, andava in scena il quarto di finale del Mondiale 2006. Di fronte, il Brasile e la Francia, remake della finale di Saint-Denis di otto anni prima. In copertina, i protagonisti, sempre loro due, decisivi, nel bene e nel male: Ronaldo contro Zidane. Il Fenomeno, otto anni prima, aveva dovuto giocare una finale benché non fosse minimamente in condizione per farlo, sotto presunte pressioni degli sponsor e dei media. La scena di Ronaldo che scende dalla scaletta dell’aereo zoppicando, il giorno dopo la partita, ce la ricordiamo tutti. L’alone di mistero che circonda quella gara esiste ancora. Ma quella è un’altra storia che, magari, un giorno vi racconteremo.
Nella finale di Parigi, Zidane segnò una doppietta e fu decisivo. Otto anni dopo, il Brasile vuole vendicare quella sconfitta. E i favori del pronostico pendono verso la Seleçao, una squadra piena di campioni. Kakà, Ronaldinho, Ronaldo, Robinho, Adriano, Roberto Carlos…i nomi parlano da soli. Eppure, nella Francia che comunque aveva un organico di tutto rispetto, il protagonista più atteso, il maestro di musica era sempre lui: monsieur Zinedine Zidane. Uno dei più grandi calciatori della storia, all’ultima recita. Lui che sognava di raggiungere la finale e vincerla, per chiudere la prestigiosa carriera nel migliore dei modi. E quella sera del primo luglio, in una calda serata estiva, a casa mia ammirammo alla TV ad una delle più belle, sontuose e romantiche prestazioni della storia dei Mondiali. “For the ages” direbbero dall’altra parte dell’oceano.
La prestazione di Zidane contro il Brasile somiglia più ad una poesia che ad una partita di calcio. Una sequenza di finte, tocchi di fino, colpi di classe che chi ha visto in diretta, non dimenticherà più. L’assist per il goal decisivo di Henry, la ruleta -marchio di fabbrica della casa- a centrocampo, il sombrero a Ronaldo con l’appoggio di testa -quella giocata portò mio cugino, che non conosceva una sola parola di francese, ad esclamare “et voila, monsieur Zinedine Zidane” senza rendersene conto, quasi fosse rapito da ciò che vedeva- il tocco di suola in mezzo a due con doppio passo successivo, le aperture di prima. Zidane quella sera illuminò nuovamente il mondo del pallone con la propria luce, sciorinando il meglio del proprio repertorio, dimostrando di essere ancora il migliore. I campioni verdeoro subirono una lezione di calcio difficile da digerire. I brasiliani furono costretti a salutare il Mondiale, ancora una volta, come otto anni prima. Adieu ai sogni di gloria.
I francesi però sarebbero stati costretti a pronunciare quella stessa parola, otto giorni più tardi. Il sogno di Zidane si infranse, per la nostra gioia, sulla testata a Materazzi ed il cartellino rosso sventolato da Elizondo. Eppure quel quarto di finale non lo dimenticherò mai. Quando Zizou mise alle corde il quadrato magico. Lui, che sembrava avesse in testa un pallone disegnato dai capelli. Lui, che nel cielo di Francoforte, contro il Brasile, aggiunse un’altra stella alla sua già luminosa carriera. E allora, aveva ragione un vecchio saggio, quando diceva che “l’amore è solo un apostrofo rosa tra le parole Franco e Forte”. Sì, perché quella sera ci innamorammo tutti. Del signore con la pelata, il numero dieci sulle spalle e la magia nei piedi.